A meno di un mese dalle elezioni, non si può non vedere il tran-tran messo su da partiti, partitini e liste civiche alla ricerca del più ampio consenso. Ognuno gioca le proprie carte per conquistare più poltrone possibili in quei palazzi in cui “si decide”. Non possiamo certo dire che si manchi di impegno né di stravaganza nella selezione dei candidati, ma tutto ciò ci interessa ben poco.
Quello che ci interessa è cambiare il piano di gioco, è lavorare su alternative concrete, a lungo termine e soprattutto che siano “alternative”.
Storici e politologi già da un po’ ripetono che il modello della democrazia rappresentativa, per come la conosciamo, è sostanzialmente inadeguato. Questa inadeguatezza inizia a palesarsi anche a chi la storia e la politica non la studia ma la vive, sulla propria pelle, ogni giorno.
La democrazia liberale permetteva ai cittadini di cambiare governo, cosa che le dittature non prevedevano, ed ovviamente era l’alternativa migliore fra le due; oggi, però, ciò non basta. Con il crescere dell’ istruzione di massa e di un pluralismo etnico, religioso e di stili di vita, la capacità rappresentativa non riesce a tenere il passo con le aspettative dei cittadini. Inoltre lo stretto legame tra democrazia liberale e Stato nazione è sicuramente un forte limite in un momento in cui gli stati vengono messi in crisi dal processo di globalizzazione: i “piani decisionali” si sono spostati altrove, più in alto nella gerarchia delle decisioni, staccandosi nettamente dalla realtà, che sia essa economica, politica o sociale, del mondo. Insomma, la crisi di questo periodo storico non investe solo l’economia, ma anche le strutture politiche e di organizzazione.
Forse, azzardiamo a dire, il sistema tutto.
Come nel caso della crisi economica, il nostro primo sforzo deve essere quello di puntare lo sguardo oltre. Così come non basta, non serve, né ci interessa la ricerca di modalità per “salvare” il sistema economico capitalista in crisi, allo stesso modo non basta, non serve, né ci interessa la ricerca di modalità per “salvare” una democrazia rappresentativa agonizzante.
Crediamo che parlare in termini “alternativi” significhi parlare di partecipazione attiva, di Politica e non politicismi. Piuttosto che discutere di alleanze e programmi di cui si manterrà si e no il 20% bisognerebbe parlare di come riappropriarsi di diritti, immaginari, linguaggi e pratiche. Piuttosto che ragionare in termini numerici e di “quanti voti porta” una dichiarazione o due secondi in più sullo schermo, bisognerebbe sperimentare e vivere un nuovo senso di vita sociale, bene comune e comunità: appunto, parlare di Politica e non di politicismi. Se esistono l’economia e la politica reale in contrapposizione all’economia di mercato e la politica di palazzo, allora è realmente possibile cambiare qualcosa, addirittura parlare di rivoluzione (termine certamente abusato negli ultimi mesi ma non per questo meno denso di significato). Questo cambiamento però non può passare né dai mercati né da palazzi: deve passare dalle mani, dalle bocche e dall’impegno di ognuno che vive le città, con le loro bellezze e i loro degradi, conducendo una normale vita.
Il tempo dell’elemosina è finito, è arrivato il momento delle responsabilità. Il nostro compito oggi, è quello di interrogarci, comunicare, sognare e condividere alternative che vadano oltre lo status quo.
Ci interessa cambiare il presente progettando un futuro diverso. Condiviso e partecipato.
Collettivo Aleph