Archivi tag: repressione

5 anni di DASPO, ma per cosa?!

fumogeni
In settimana, Maurizio, 23 anni, si vede recapitare da una pattuglia una bella notizia: DASPO per 5 anni.

Ma che cos’è il Daspo? Il “Divieto di accedere a manifestazioni sportive” è regolato dalla Legge 13 dicembre 1989 n. 401, per contrastare il crescente fenomeno della violenza negli stadi di calcio. Si tratta di una misura amministrativa e non penale, emessa dalla Questura quando un soggetto viene ritenuto pericoloso limitatamente alle manifestazioni sportive.

Il divieto di accedere agli stadi può durare da uno a cinque anni e può essere disposto dal questore, la casistica è molto ampia e si estende anche a coloro che partecipano, incitano, incoraggiano manifestazioni di violenza. Il Daspo può essere comminato anche nei confronti di soggetti minori di anni 18, che abbiano compiuto il quattordicesimo anno di età (in tal caso, il divieto è notificato a coloro che esercitano la patria potestà).

Stesso provvedimento che negli ultimi tempi si è discusso in parlamento di modificare aggiungendo il “Daspo di gruppo” ed aumentando gli anni di pena e che si vorrebbe estendere a qualsiasi tipo di manifestazione, anche di piazza.

Quello che non tutti sanno e che i politicanti ed i sindacalisti in divisa di casa nostra fingono di ignorare, è che la “discrezionalità” del provvedimento (non occorre subire un processo per prendersi il Daspo, lo da il questore sulla base di un rapporto di polizia: in parole povere se vieni denunciato scatta automaticamente il Daspo) non richiede alcuna prova per l’emissione: non occorre nessuna foto, basta che un agente dichiari che in quel determinato frangente tu abbia commesso l’atto “x”, ed arrivano denuncia e Daspo! Ed hai voglia a spiegar loro che quel giorno tu eri in un altro punto della manifestazione o che addirittura ti trovavi al mare con la fidanzata: a loro non interessa, loro emettono il provvedimento, in caso lo spiegherai al giudice!

“Certo, però una volta che affronti il processo puoi dimostrare la tua innocenza e venir “reintegrato”, direte voi. Beata ingenuità. Sapete quanti ragazzi che vengono “daspati” arrivano poi ad affrontare il processo? Meno del 50%! Il grosso dei reati che vi verranno contestati cadranno tutti in prescrizione, e buona parte di quelli che al processo ci arrivano si vedono poi assolvere per non aver commesso il fatto(si parla di un altro 75%) , o perché il fatto non sussiste, o non costituisce reato (!!!). Il tutto ovviamente succede molti anni dopo che l’interessato o gli interessati abbiano comunque scontato il loro Daspo, col risultato di essere stati privati della loro libertà per un periodo della loro vita senza essere colpevoli.

“E vabbè, qualche limite alla libertà ma serve a contrastare la violenza”, qualcuno dirà ancora. Ebbene, torniamo a Maurizio, denunciato e daspato per 5 anni.“Chissà di quali atti criminosi è accusato”, ecco qua: accensione e lancio sul pavimento di un fumogeno all’ interno della stessa Curva Sud.

Non crediamo ci sia bisogno di spiegare meglio, è già tutto abbastanza chiaro. Siamo troppo stanchi di questa finta giustizia.

Non stiamo qui a chiedere di condividere o non condividere le ragioni e le passioni di un Movimento Ultras, ma ancora una volta a dire che la giustizia, in Italia passa solo dalla parola “repressione”.

Se un Daspo ci dev’essere sia dentro il Parlamento, a chi ci considera voti o erbaccia da estirpare.

Noi da fuori quei palazzi del potere, nelle piazze, nelle case, negli stadi continueremo a lottare e resistere!

No al Daspo ed alla Tessera del tifoso.      

Ultras liberi, Maurizio libero.

liberi

Restare Umani – ancora sulla morte di Francesco

Mercoledì mattina una notizia più di altre ci ha colpiti: l’uccisione di un ragazzo di
venti anni e il ferimento grave di un ragazzo di 15 anni a seguito di un tentativo di rapina in un distributore.
Le dinamiche sembrano essersi parzialmente chiarite, anche se ancora i video delle telecamere del benzinaio non sono di dominio pubblico.

La cronaca
Francesco, e tre altre persone, di cui due minorenni, tentano una rapina nella notte tra martedì e mercoledì in un distributore di benzina in tangenziale. A sentire i parenti dei ragazzi, Francesco è da mesi senza lavoro e la rapina serve proprio ad avere a disposizione del denaro per campare. La dinamica dell’accaduto sembra essere stata questa: con due pistole finte, tre dei quattro vanno alla cassa del distributore. Un poliziotto fuori servizio si trova proprio dentro al bar del distributore e interviene, arrestando uno dei tre ragazzi. Gli altri due scappano fuori e vengono intercettati dal collega del poliziotto presente all’interno. Lui spara: Francesco è colpito alle gambe e muore dissanguato, il ragazzo di 15 anni viene colpito alla testa.
Il ragazzo ferito è ricoverato in gravi condizioni all’ospedale, l’altro minorenne scappa e non è ancora stato trovato.

Le reazioni
Ci siamo ritrovati davanti a questo, e d’istinto abbiamo reagito, ci siamo sentiti in dovere di dire qualcosa, nonostante sapessimo che il quadro non fosse molto chiaro, nonostante alcuni dettagli non fossero ancora definiti. Nonostante sapevamo di poter risultare “impopolari”.
A diversi giorni di distanza, tolto l’impulso del momento, ritorniamo sull’argomento, perché ci teniamo a spiegarci meglio, ad esprimere meglio quello che pensiamo di questa situazione spinosa.
Partiamo affidandoci alle parole dei familiari (che potete tranquillamente accusare di essere di parte): questi ragazzi vengono da Librino, quartiere certamente non fra i più semplici della città, e avrebbero agito spinti dal bisogno, dall’assenza di lavoro, dalla necessità di avere qualcosa di cui vivere.
Ora, noi non conosciamo direttamente Librino. Lo conosciamo indirettamente tramite le esperienze di tante persone che lavorano in quel quartiere, per le sue strade, ogni giorno. Conosciamo però altri quartieri popolari della città, complessi alla stregua di Librino, come Picanello e Antico Corso, che stiamo imparando a conoscere.
Sono quartieri in cui può capitare che un ragazzino di 15 anni smetta di andare a scuola, per semplice retaggio culturale o proprio perché c’è bisogno che “produca”- lavori – porti “i soldi a casa”. Sono quartieri in cui spesso il lavoro manca (e non da ora perché c’è la crisi, anche da più tempo) e se c’è è spesso sottopagato. La retta via in certi quartieri spesso ti porta a sgobbare tutto il giorno per pochi euro, e questo non basta per vivere dignitosamente. In certe situazioni, una cosa che può accadere è che si fanno delle scelte di vita azzardate, “sbagliate”. Si entra nel giro di spaccio (è una cosa semplice, che possono fare anche i ragazzini) o magari ci si ritrova a rapinare un distributore di benzina, per fare degli esempi.
Questo è il famoso contesto a cui più e più volte ci riferiamo e ci siamo riferiti. È certo una forte generalizzazione, ma non possiamo ignorarlo perché è una realtà che esiste e che determina molte dinamiche di quartiere. Non sono luoghi di vita in cui si vive in maniera lineare; in certi luoghi i concetti di legittimo e illegittimo, giusto e sbagliato, legale e illegale di mescolano, non hanno confini, smetti di distinguerli. Nel bene o nel male.

Perché?

Entrando in contatto con tutto questo è naturale chiedersi “come è possibile?”. La prima cosa che ti aspetti, se sei ancora una persona che nutre ancora un minimo fiducia nello stato, è proprio un un suo intervento, attraverso sussidi, servizi sociali, scuola, aiuti, piani educativi e lavorativi.
Lo stato, come il Comune, in questi quartieri esiste, certo, ma in forme che i sopracitati fiduciosi nello stato forse non si aspettano: chiude le scuole nei quartieri a rischio per mancanza di fondi; chiude gli asili pubblici, lasciando spazio ai privati; non assegna le case popolari né tanto meno pensa a sfruttare i fondi esistenti per ristrutturarne o costruirne di nuove; multa il baracchino dove vendi della merce perché “non in regola”; taglia alla sanità, perché i buchi procurati dai dirigenti adesso sono più alti e devi portarti i medicinali da casa se vuoi essere curato all’ospedale. Queste sono le soluzioni dello stato. Lo stato di diritto.
E quando occupi una casa o non ti fai sfrattare da casa perché non hai pagato l’affitto, quando allacci “illegalmente” la luce perché non puoi pagare le bollette, quando magari vai in piazza Duomo a chiedere conto alle istituzioni dei diritti e della dignità che ti è negata… ricevi sfratti, polizia, sgomberi, denunce. 

Lo stato o è assente o è presente in questo modo.

Che fare?
Questi sono i luoghi che abbiamo imparato e che stiamo imparando ancora a conoscere, a capire.
Mettendo da parte tante convinzioni, tentando di esserci, di starci dentro, senza tanti complimenti, con tutte le contraddizioni e complicazioni del caso. Ben lontani dall’essere portatori di soluzioni, semplicemente facciamo quello che pensiamo sia giusto fare: trovare soluzioni comuni a problemi comuni. Senza delegarne la responsabilità a nessuno. Così nasce il doposcuola gratuito, così nasce lo sportello antisfratto, così nascono i momenti di aggregazione aperti a tutti. Il tutto dentro l’ennesimo posto abbandonato in città, e da noi occupato. Azione illegale (alla salute dei benpensanti) ma per noi legittima.

Tornando a Francesco
Queste nostre esperienze, anche se lontane dal quartiere di Librino, ci fanno comunque sentire molto vicina quella realtà. Siamo ancora una volta convinti del fatto che invocare più polizia o azioni di polizia più dure non sia la soluzione. Questo non significa plaudire ad ogni rapina fatta da “chi ha bisogno”. Però non significa nemmeno puntare il dito né, tanto meno, giustificare dei colpi di pistola, un morto e un ferito grave. Il punto è che con i fatti accaduti, ancora una vita si conferma la situazione in cui lo stato per certe persone è presente solo in alcune forme e non agisce sui contesti di cui sopra per evitare certe situazioni.
Guardare i contesti. Sempre.
Guardare i contesti quando si tratta dalla rapina al distributore; guardare i contesti quando si tratta della militarizzazione del centro storico. I contesti, dentro cui nasciamo, ci formiamo, viviamo e che contribuiamo a creare. Da quello bisogna partire. E su quello bisogna lavorare.
Francesco non è solo vittima dello stato perché ucciso da un poliziotto. Francesco è vittima dello stato come molti altri perché lo stato lo ha conosciuto nel suo quartiere solo nelle sue forme repressive, e mai per quello che dovrebbe essere: formatore, sostenitore, aiuto. Ecco perché Francesco, almeno per noi, è una vittima dello stato.

Un ultima cosa.
Dopo aver pubblicato le nostre prime considerazioni, alcuni hanno apprezzato, molti altri ci hanno criticato. Va benissimo ed eravamo consci che la nostra sarebbe stata una posizione impopolare.
Su una cosa però non possiamo rimanere impassibili: essere felici, quasi inneggiare per la morte di Francesco, sperare che il ragazzino oggi in prognosi riservata muoia anche lui (così è “uno in meno”) forse è troppo. Per tutti. Perché la vita umana, al di là dei soldi, al di là dell’illegalità, al di là dei contesti, vale più di tutto. La vita di Francesco valeva più di queste cose. La vita di un quindicenne vale più di queste cose. Possiamo tollerare tante cose, scritte e dette sul nostro conto oggi, ma non possiamo tollerare certi commenti soddisfatti per la morte di un ragazzo e la possibile morte di un ragazzino.

Più che schierarsi contro o a favore in questi casi, sarebbe bene solo ricordarsi di “Rimanere Umani”.

tumblr_mdmye6Rtcd1ruye5do1_1280

Non c’è condanna per chi lotta!

Abbiamo tutti in mente, vivide, le immagini della Libera Repubblica della Maddalena. Un’esperienza di resistenza e riappropriazione dal basso, di vita e politica comune che difficilmente si può dimenticare.

indexOltre a quel mese e più d’esperienza comune, ricordiamo bene anche la repressione, violenta e indiscriminata che abbiamo dovuto subire, per ben due volte due volte. Il 27 giugno 2011 prima, durante lo sgombero della Libera Repubblica, e il 3 luglio 2011, durante il corteo comune che ha attraversato la valle. Ruspe e idranti prima, manganelli e lacrimogeni dopo.

Inutile ripetere ciò che è stato, raccontare ancora la cronaca di quello sgombero, la cronaca di quella manifestazione. Inutile ripeterlo perché tanto è stato detto e tanto è stato raccontato. Per quanto ci riguarda, basta il ricordo dei polmoni pieni di gas CS e le teste spaccate di molte e molti dai manganelli; le tende divelte e i bracci meccanici che si muovono, incuranti, sopra le teste di esseri umani.

1010284_523910820992258_1239699386_nIn questi ultimi mesi quelle giornate hanno rivissuto però, attraverso le immagini e i racconti, nella ormai tristemente nota aula bunker delle Vallette di Torino. 53 imputati in tutto sotto processo per reati come violenza e minaccia a pubblici ufficiali, attraverso lancio di pietre, bombe carta e razzi di segnalazione, oggetti contundenti; il tutto accompagnato da diverse aggravanti e una narrazione generale che parla, ancora una volta, di gruppi organizzati quasi militarmente.

53 imputati, dicevamo, per cui le pene richieste dai PM erano davvero spropositate, ingiustificate, ingiuste.

Ieri la sentenza di primo grado.

Su 53 imputati, 47 condannati e 6 assolti. In tutto, le pene per i compagni e le compagne raggiungono i 140 anni di carcere complessivi, e più di un centinaio di migliaia di euro di risarcimento. Per alcuni compagni, la condanna ha superato la richiesta fatta dai PM (come nel caso di Elena, David, Giuseppe, Gianluca e molti altri).

In un momento in cui l’impianto accusatorio dei PM nei confronti dei compagni accusati di terrorismo è miseramente caduto; in un momento in cui è palese che avevamo ragione, che il TAV è inutile e adesso non ci sono più nemmeno i soldi per farlo, questa notizia suona dissonante, stonata. O forse guidata da ragioni che poco hanno a che vedere con la legge e la razionalità. Con la giustizia.

I compagni valligiani parlano di “vendetta di Stato”, e noi non possiamo che essere d’accordo.

Vendetta che si scaglia sotto forma di repressione giudiziaria su un grande movimento che in tanti anni di resistenza ha dimostrato e insegnato tanto.

Dal canto nostro, abbiamo imparato tanto dal movimento No Tav e in Val di Susa ci siamo sempre sentiti a casa. Non possiamo che esprimere la più grande solidarietà verso i condannati e stringerci attorno a tutte e tutti, anche se virtualmente.

Insieme al movimento abbiamo vissuto grandi momenti di resistenza collettiva.

Ancora non è finita, ancora dobbiamo reggere, insieme.

Si riparte quindi, senza alcun rimorso.

A sarà dura!

A Catania la polizia uccide – una riflessione a caldo

Quelle che state per leggere sono le nostre riflessioni a caldo scaturite dalla lettura di questa notizia stamane sui quotidiani locali.

PoliziaNon è utile in questo momento parlare della cronaca dei fatti, anche se sarebbe interessante capire un paio di cose. Per esempio, capire come possa essere avvenuto uno “scontro a fuoco” tra delle pistole giocattolo dei ragazzini rapinatori, e le pistole vere dei poliziotti; o ancora, sarebbe interessante capire il numero di colpi esplosi dalle pistole vere dei poliziotti, che pare siano stati numerosi. Tutto questo, e molto altro, vorremmo capire. Ma non è questo adesso il punto.

Perché leggendo la cronaca locale, la prima cosa che ci viene in mente è se si può accettare che un ragazzo muoia, freddato dalla pistola di un poliziotto fuori servizio, e un altro a 15 anni sia in fin di vita all’ospedale per lo stesso motivo. Ce lo chiediamo perché, tra lo stupore generale di tutti, nessuno pare porsi questa domanda.

A Catania però succede che si muore. Si muore e ci si ferisce; si rapina e si spaccia… insomma, a Catania la vita non è un gioco. Nemmeno per i bambini.

Povertà e miseria, ricatto e minaccia: questo è che quello che tanti vivono quotidianamente.

Molti invocano a gran voce più legalità, ma al momento l’unica legalità vigente in certe zone della città è quella di un sistema, di un governo, che non aiuta, che reprime e spesso lascia morire; alle volte ne è anche causa, per mezzo di quegli uomini in divisa che fanno morti a suon di pistole e manganelli.

Eccola la legalità a cui siamo abituati.

E così succede che un ragazzino a Catania, non lo ritrovi a giocare alla Playstation o a fare sport, ma dietro la cassa di un benzinaio, con una pistola giocattolo, a tentare di rapinarla.

Noi non conoscevamo Francesco e non sappiamo perché fosse lì. Forse era solo una ragazzata, forse aveva davvero bisogno di quel denaro. Il punto è che è stato ucciso perché sparato da un poliziotto fuori servizio, che ha deciso di difendersi da una pistola giocattolo con dei proiettili veri.

Questa è la giustizia che vogliamo? Questa la giustizia che invochiamo? Libertà per gli uomini in divisa di uccidere senza pietà, senza se e senza ma?

Adesso, chi se ne assume la responsabilità?

Così, a caldo, dopo aver letto la notizia, siamo sbigottiti. E arrabbiati. Perché lo Stato in certi quartieri popolari è l’esattore delle tasse, l’ ufficiale giudiziario venuto a intimare lo sfratto, il poliziotto che minaccia e spesso spara. Questa non è per noi giustizia, e chi vive un quartiere sa quante sono le difficoltà e le contraddizioni che si è costretti ad affrontare quotidianamente.

Noi non conoscevamo Francesco e non sappiamo perché abbia deciso di prendere una pistola giocattolo e tentare di rapinare un benzinaio. Però sappiamo che un poliziotto ha deciso di premere per più volte un grilletto, davanti a un giocattolo di plastica.

Per noi, Francesco è l’ennesima vittima dello Stato.