Resistenza Quotidiana

Come ogni anno ritorna il 25 aprile e tutto quello che comporta. A Catania questo significa tante cose: sigle che, assenti per tutto il resto dell’anno, si scrollano di dosso la naftalina ed escono fuori dalle rispettive sedi; appuntamenti per ricordare quello che è successo nel 1945 e cosa è stato il fascismo in Italia e non solo; assemblee per “gli addetti ai lavori” nel tentativo di ricomporre, almeno una volta l’anno, il grande ventaglio dei gruppi cittadini che, chi più chi meno, in ambiti diversi, portano avanti le lotte sociali a Catania.

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Come ogni anno quindi ci chiediamo che senso ha per noi il “giorno della liberazione”, nel tentativo di contestualizzarlo per evitare di vivere questa data come semplice commemorazione di quello che fu, rivivere la storia passata senza essere consapevoli di quella che viviamo nella contemporaneità del presente.

Siamo giovani, alcuni di noi vanno ancora a scuola, altri studiano all’università, alcuni sperimentano le nuove forme di lavoro precario sulla propria pelle, attraversando lunghi periodi di disoccupazione nera. Siamo giovani, come molti di quei partigiani che 70 anni fa hanno deciso di combattere il nazi fascismo con ogni mezzo possibile. La nostra generazione è una sorta di cavia da laboratorio che sperimenta giornalmente gran parte dei grandi cambiamenti del nostro tempo: le pazze riforme dell’istruzione che, dal 2008 ad oggi, sembrano essere un anno si e l’altro pure al centro dell’agenda politica nazionale; il delirio delle riforme che prendono nomi strani, come il Job’s Act, o la follia di sindacati che firmano accordi collettivi che riconoscono il lavoro gratuito come nuova forma contrattuale di lavoro (come hanno fatto in vista dell’EXPO); lunghi periodi di disoccupazione in cui anche arrivare all’indomani è un’impresa; l’approvazione di leggi come quelle dello Sblocca Italia che non solo depenalizza i reati ambientali, ma spalanca le porte, con tanto di tappeto rosso in terra, alla devastazione e la speculazione del territorio. Siamo la generazione della crisi economica, questo mostro invisibile eppure sempre presente, in nome del quale sono state varate, e continuano ad esserlo, le più devastanti misure economiche che hanno delle ripercussioni sociali pesantissime, che persino noi che ne parliamo spesso non sappiamo ben quantificare. Viviamo il tempo in cui la libertà di movimento è garantita solo a chi nasce “al nord del mondo”, perché se sei siriano, nigeriano, egiziano e vuoi spostarti per migliorare le tue condizioni di vita, scappando da fame e guerra, allora devi fare i conti con chi lucra sul tuo disagio, affrontare il mare aperto e riuscire a sopravvivere. Siamo anche la generazione della storia che si tenta di cancellare, che raramente riesce a conoscere a fondo la storia contemporanea di cui siamo figli e che, se per caso ci arrivano, devono riuscire a sopravvivere al revisionismo storico di casa nostra che tenta, da qualche anno, di cancellare e riscrivere quello che è realmente stato il fascismo in Italia e cosa è stata la liberazione da quell’epoca grigia.

Siamo giovani come quei partigiani che 70 anni fa sono nati e cresciuti in un’epoca in cui la libertà era una visione, un sogno, qualcosa di indefinito di cui si sapeva qualcosa solo grazie alla memoria dei più grandi. Proviamo giornalmente a leggere il presente e mettiamo in comune rabbia, disagio, paure e forze. Nelle scuole, nelle università, negli spazi che occupiamo, nei quartieri che impariamo ad abitare, ci misuriamo giorno dopo giorno con le nostre difficoltà e soprattutto con quelle degli altri, che subiscono, seppur in maniera diversa, con la stessa ferocia i colpi di quelle decisioni prese in palazzi sempre più distanti. Per questo ci sentiamo resistenti ogni giorno, quando gridiamo il nostro no alla Buona Scuola, quando ci opponiamo al Job’s Act, quando subiamo la repressione indiscriminata del potere politico, quando andiamo in Val di Susa o a Niscemi. Siamo resistenti quando ascoltiamo e tentiamo di dar voce alle storie di vita dei quartieri in cui viviamo, quando arriva una nuova famiglia allo sportello antisfratto, quando apriamo una palestra popolare gratuita, quando facciamo il doposcuola in quartiere. Siamo resistenti quando accogliamo i nostri fratelli e le nostre sorelle che, partiti dall’Africa, affrontano il mare aperto per raggiungere le nostre coste, quando parliamo di meticciato, corridoi umanitari e solidarietà attiva in contrapposizione all’indifferenza europea, noncurante delle tragedie che settimanalmente si susseguono nel nostro Mar Mediterraneo, divenuto tomba silente di migliaia di persone.

Soprattutto siamo resistenti quando, a vent’anni, decidiamo di rimanere nella nostra città, nella nostra terra, quando tanti amici coetanei decidono, o sono spesso obbligati, a partire. Rimaniamo perché andare via significherebbe darla vita a quel malaffare politico che ci governa, di qualsiasi colore, più o meno democratico, sia; significherebbe lasciare spazio al potere mafioso che governa nelle diverse parti della nostra terra, con strumenti sempre diversi e sempre più pervasivi; significherebbe sradicarsi e perdere parte di quella identità che ci accomuna, che ci rende comunità.

Questo è, molto semplificato, il contesto che viviamo e in cui ci chiediamo come attraversare questo 25 aprile. Come sempre abbiamo fatto ci prendiamo la responsabilità delle nostre decisioni, più o meno popolari. Questo nostro 25 aprile non sarà né con l’ANPI né con la piattaforma alternativa de gli “Antifascisti Catanesi” perché se siamo resistenti ogni giorno allora il nostro 25 aprile non può essere condiviso con chi, per tutto il resto dell’anno, difficilmente riusciamo ad incontrare e condividere percorsi di lotta reali.

Non andiamo oltre e ci avviciniamo a questo 25 aprile per quello che siamo, resistenti nella nostra città, partigiani della contemporaneità.

Il 25 aprile per noi non è commemorazione. Il 25 aprile per noi è Resistenza Quotidiana.

#IoResto per #FareTerritorio