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KAOS Catania, prospettive per l’autunno di lotta

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Antifascismo ed autorganizzazione sono le due parole chiave che, sin da quando nasce, hanno accompagnato il Koordinamento AutOrganizzato Studentesco in ogni suo percorso di lotta.

Oggi, che ottobre sta per volgere al termine, e si aprono, col mese di novembre, nuove prospettive di lotta, ci sentiamo in dovere di sottolinearle ancora una volta e di spiegarle ancora.

Questo primo mese che abbiamo attraversato con due manifestazioni, 9 e 17 ottobre, ci ha fatto ben sperare sull’anno che viene: migliaia e migliaia di studenti hanno riversato la loro rabbia per le strade di Catania, determinati a difendere le proprie scuole e il proprio diritto allo studio. Cori, sanzionamenti di banche, macerie lasciate davanti al Comune, sono tutti gesti simbolici ma forti di chi vive un disagio vero sulla propria pelle e ha bisogno di manifestarlo. Siamo nel 2015 e la disillusione che caratterizza gli studenti la sentiamo tutti. Nonostante questo riteniamo che le forme di protesta delle quali ci avvaliamo, che siano una manifestazione, un’occupazione di una scuola o una semplice autogestione, non abbiano in alcun modo perso la loro validità, come spesso siamo portati a pensare.

E queste due manifestazioni ci portano a crederlo con maggiore convinzione: le piazze dentro cui stiamo sono piazze che non hanno mai avuto, e mai avranno, paura di parlare di “conflitto” nella sua forma più genuina, un conflitto che racconta di autorganizzazione e di antagonismo, un conflitto che racchiude tutte le frustrazioni e le umiliazioni che siamo costretti a subire da questo sistema che ci opprime sin dalla scuola, che ci vuole schiavi e ignoranti, che ci vuole sfruttati sin dalla giovanissima età. Un conflitto che ci porta sotto il Comune di Catania, che ci porta davanti alle banche, quelle stesse banche che dettano l’agenda politica governativa, che poi grava sulle nostre spalle e su quelle, già abbastanza cariche, dei nostri genitori.

Nessuna forma di assistenzialismo, di beneficenza, di volontariato ci appartiene: non siamo noi a dover sopperire alla mancanze e ai buchi neri che lo Stato, o chi per lui, lascia nella società. Noi siamo lì a ricordare che abbiamo DIRITTO alla scuola pubblica, DIRITTO alla casa, DIRITTO al reddito, e DIRITTO alla dignità. E lo abbiamo ripetuto più e più volte: quello che non ci danno, ce lo riprenderemo, pezzo per pezzo, scuola dopo scuola, casa dopo casa.

Non staremo mai in piazza con chi non sa fare di meglio che fare il tirapiedi del politicante di turno, con chi appoggia lo scellerato governo Renzi, con chi firma accordi altrettanto scellerati a scapito di studenti e lavoratori: la forma del sindacato non ci appartiene, tanto meno ci appartiene quella del partito. Autorganizzazione vuol dire ripartire dal basso, rendersi conto di quali sono i veri bisogni e le vere necessità degli studenti e, passo dopo passo, ottenere tutto quello che ci spetta di diritto.

Non staremo mai in piazza con chi aizza e si auspica una guerra tra poveri, con chi si sbraccia per dire “prima gli italiani”, con chi reputa esseri inferiori immigrati, donne e omosessuali.

L’antifascismo è un valore, i partigiani ce lo insegnano, e noi di quegli insegnamenti ne facciamo una lotta quotidiana, ne facciamo un antifascismo vero e militante, che sta in prima linea contro il Salvini di turno, e contro tutti quei gruppuscoli neofascisti che ci ritroviamo a contrastare in città. Un antifascismo che sta in prima linea contro omofobia, razzismo e sessismo, che difende la libertà d’espressione, di movimento e di orientamento sessuale.

Autorganizzate ed antifasciste saranno le piazze che costruiremo a Novembre, a Dicembre e in tutti i mesi a venire, antifascista è ogni lotta che attraversiamo, e l’autorganizzazione il modo per portare avanti le nostre lotte.

PARTECIPA, AUTORGANIZZATI, LOTTA

A fianco della Resistenza Curda

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Perché oggi si torna a parlare di Kurdistan, di PKK, di una questione aperta da ormai oltre trent’anni che oggi sembra prendere di prepotenza posto nell’informazione quotidiana? La risposta, almeno in parte, è il nome di una piccola cittadina posta sul confine turco-siriano, di qualche decina di migliaia di abitanti: Kobane. Kobane però, da un po’ di tempo, nello specifico dal 2012, non rappresenta semplicemente un piccolo insediamento urbano di frontiera, ma è sia un simbolo, sia il vero e proprio concretizzarsi di un preciso progetto politico rivoluzionario. E’ infatti dal 2012 che il YPG (unità di autodifesa del popolo curdo) e il YPJ (unità di protezione delle donne), dopo lo scoppio della guerra civile siriana, hanno preso il controllo della città rendendola un insediamento autonomo e indipendente dal governo siriano. Altro motivo per cui il nome della città ha riecheggiato nei notiziari di tutto il mondo nel periodo recentissimo, è l’eroica resistenza che gli stessi YPG e YPJ, praticamente soli, all’assedio che lo Stato Islamico ha lanciato alla città da quasi un anno.

Per altro la tesissima situazione fra PKK e Turchia ha influito nel conflitto, causando la chiusura della frontiera siriana da parte del governo di Ankara, impedendo, o quantomeno complicando in modo considerevole, il passaggio di sussidi umanitari o militari (provenienti da altri stati come, ad esempio, l’Iraq). Sempre in Turchia, inoltre, la situazione è parecchio carica a causa sia degli interventi dei guerriglieri del PKK ai danni dell’esercito turco, sia degli scontri di piazza fra manifestanti curdi e forze militari.

La città di Kobane, dunque, si trova ora stretta sotto la morsa di due “grandi potenze” del Medio Oriente: da un lato fronteggia l’avanzata dell’ISIS, dall’altro si trova pressata sul confine bloccato della Turchia.

A mobilitarsi, organizzando carovane per gli aiuti umanitari, campagne nazionali e internazionali per il sostegno e la ricostruzione di Kobane dopo la sua quasi totale liberazione, sono stati prevalentemente associazioni o gruppi legati a varie aree politiche della sinistra. Il coinvolgimento dei suddetti gruppi però va ben oltre la sola questione dell’esigenza umanitaria, che ha in ogni caso contribuito alla decisione di mobilitarsi per portare aiuti concreti nella zona. Quello che sta accadendo in questo momento nel Rojava (Kurdistan Occidentale) non è solo un conflitto contro il gruppo dello Stato Islamico. Quello che succede a Kobane da ormai tre anni è, come già specificato, la realizzazione di un progetto rivoluzionario, portato avanti dal PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan), storicamente portavoce dell’indipendenza curda nella zona della Turchia, ma anche promotore di idee rivoluzionarie anticapitaliste, antistataliste, che non mirano solo alla liberazione e indipendenza di un popolo, ma alla costruzione di una società libera dai vincoli e dallo strapotere di una struttura statale, libera da strutture e dogmi sociali, religiosi, culturali che perdurano da molti secoli e che minano la libertà di ognuno, oltre ad avere in buona parte contribuito al consolidamento della società capitalista.

Questo progetto politico prende il nome di autonomia democratica, ed è stato adottato dal PKK dalla fine degli anni ’90, dopo una lunga serie di valutazioni che hanno portato a non ritenere valido per i propri scopi, e dunque per un’effettiva liberazione dei popoli, il sistema Statale marxista-leninista, a cui prima faceva capo. Il motivo della scelta da parte del partito di adottare e rendere propria questa idea è in parte espresso in una frase pronunciata da Ocalan, storico leader del PKK ora detenuto in un’isola prigione in Turchia, che dice:” Dal momento che il PKK si poneva come difensore della libertà, non potevamo continuare a pensare in termini di gerarchia”. E’ evidente come il progetto si fondi su basi libertarie. Nella sua struttura, a livello locale basata sull’autogoverno di provincie più o meno ristrette e a livello generale, nella sua forma di Confederalismo Democratico, su un’assemblea composta da rappresentanti delle autonomie locali eletti tramite democrazia diretta, si può avere già un primo esempio di questo aspetto. L’assenza di poteri gerarchizzati e istituzionalizzati è evidente anche nella scelta di non creare nuclei di forze armate asserviti ad un controllo di tipo statale, ma unità di autodifesa popolare (come esempi basti vedere il YPG e il YPJ).

Importante è anche la fermezza che viene applicata nella difesa dell’ecologismo. Infatti il PKK muove forti critiche al rapporto che il sistema capitalista ha con la questione ecologica, rapporto contraddistinto da un relazione di sfruttamento tra soggetto e oggetto.

Sempre riallacciandosi alle questioni culturali e sociali, altro punto focale della lotta del PKK è la totale avversione alle logiche patriarcali che hanno da diversi secoli contaminato gli aspetti culturali e sociali della vita di ogni popolo. Per questo la donna assume un ruolo fondamentale nella struttura di questa società. Vengono del tutto appianate le differenze create da un impianto culturale vecchio millenni e fondato su dogmi e preconcetti ovviamente ingiustificati e deleteri per la creazione di una società veramente libera. Inoltre è fortemente rimarcato il concetto per cui l’asservimento della figura femminile, contro cui l’autonomia democratica combatte, non debba essere ridotto, come spesso accade, a una questione relativa alla sfera del privato, ma debba anch’esso essere considerato parte dell’impianto sociale stesso. Per questo l’importanza della donna fa in toto parte del progetto politico in ogni suo aspetto.

E’ adesso forse più semplice capire che l’importanza di Kobane non sta solo nell’eroica lotta che sta combattendo contro un nemico comune di questo momento storico, l’ISIS, ma anche e soprattutto nella vera e propria rivoluzione che sta partendo da essa; una rivoluzione non relegata a vivere solo nel contesto di una piccola cittadina di frontiere devastata da una guerra continua e dal fascismo Turco, ma che vuole estendersi oltre i confini di un’ipotetica nazione curda (priva di Stato), partendo dal territorio mediorientale, da sempre colpito senza alcun ritegno dall’Occidente, emblema e fondatore, in un certo senso, della società a cui l’autonomia democratica si oppone. Kobane è in questo momento un vero e proprio simbolo rivoluzionario, ed è per questo, oltre che per la questione umanitaria di base, che le organizzazioni e i gruppi si muovono costantemente in suo aiuto.

Per sostenere la resistenza e il progetto (di cui sopra) del popolo curdo, Aleph Catania ha deciso di prendere parte attivamente alle campagne di raccolta fondi.

A livello internazionale vengono organizzate iniziative a sostegno di Kobane, e sulla scia della campagna nazionale per la ricostruzione di Kobane, a Catania, sotto la firma di “Catanesi solidali con la resistenza curda”, come militanti e attivisti di varie realtà politiche della città abbiamo organizzato e stiamo portando avanti una serie di iniziative che culmineranno con un’assemblea e un concerto a Palestra Lupo il 4 Ottobre, i cui proventi saranno impiegati nella costruzione a Kobane di un ospedale, della scuola “Antonio Gramsci” e della Casa Delle Donne.

“FareTerritorio”: un tentativo di definizione

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Tempo fa abbiamo iniziato un percorso, “Io Resto per Fare Territorio”, intendendolo non solo come una conricerca o uno slogan ma come un vero e proprio tema politico da sviscerare, a partire dalla nostra esperienza politica. Infatti, da semplice indagine su come i militanti di diverse realtà antagoniste siciliane vivono il fenomeno migratorio di casa nostra, siamo arrivati all’esigenza di chiarire cosa per noi significa “rimanere” per “fare territorio”. E non è semplice, naturalmente, ma sentiamo che uno sforzo definitorio vada fatto.

“Fare territorio” parte dal concetto di resistenza come esigenza. Infatti per noi oggi rimanere al Sud, nel nostro caso in Sicilia, non seguendo il continuo flusso migratorio interno, è certamente un atto di resistenza. Ci sono nemici che sono comuni ovunque nel mondo, ma dirsi anticapitalisti, nel senso più ampio del termine, è forse una cosa che serve anche se scontata. Perché se è vero che il sistema capitalista ha una natura eminentemente economica, è vero anche che esistono capitalismi sociali e politici non da meno, e non meno pericolosi. Sentirsi anticapitalisti quindi non può essere legato solo ad un’analisi prettamente economica, che parli esclusivamente in termini di profitti monetari e accumulazione di capitale, ma anche e soprattutto ad un intervento politico e sociale nei territori, che vada ad aggredire non solo il capitale ma anche quei giochi di potere politico-mafiosi tipici di casa nostra che reprimono, indiscriminatamente, abituando alla sottomissione.

I territori rimangono per noi il campo principale della nostra resistenza, luogo da cui nasce e in cui si riversa questa esigenza. L’esperienza movimentista dentro al movimento NoMuos e i campeggi in Val di Susa, ci hanno insegnato che i territori sono di chi li abitano. Anche in questo caso, uno slogan è diventato un progetto, un modo di agire sull’esistente, partendo dalla propria terra, dai propri contesti. “Territorio” diventa il quartiere in cui si abita, le scuole e le università che si frequentano, i (tanti e vari, spesso vacui) luoghi di lavoro precario e sottopagato. Questo il nostro territorio, al di fuori dai contesti rurali dei movimenti territoriali a cui siamo legati, questo il terreno da cui nasce e si sviluppa la nostra esigenza di resistere. Sovvertire quella che sembra, anche se così non è, la naturale tendenza ad essere sudditi e soggetti passivi alla pressione economica, sociale e politica che viene da palazzi, borse e governance, è un passo che necessariamente ha a che fare col concetto di autorganizzazione, intesa come partecipazione, comunità vissuta e condivisa, prima forza motrice del cambiamento e della creazione di “altro”, partendo proprio dai propri territori quotidiani. Curarsi di una piazza, porsi il problema della formazione ricevuta, capire la distribuzione dei profitti all’interno di un contesto lavorativo, sono tutti passi che portano a pratiche di vera e propria riappropriazione, rottura del rapporto “oppresso/oppressore”, quindi della routine quotidiana fatta di servilismo, e che vedono spazi liberati e occupati, luoghi di formazione vibranti di autoformazione e condivisione dei saperi, luoghi di lavoro gestiti dagli stessi lavoratori. Sì, perché chi meglio dell’abitante di un quartiere, di uno studente o un lavoratore può capire quali sono le esigenze del proprio “territorio” di riferimento? Il primo atto di resistenza è dunque mettersi in comune, rompere la gabbia dell’isolamento e creare comunità, contrapposta all’atomismo e alla futilità di rapporti basati su mere facciate estetiche e profitto. Mettere in comune i bisogni, rispondere in maniera collettiva ad essi, sono passaggi che alimentano, almeno per noi, il concetto di autonomia, intesa come consapevolezza e pratica. È quella che porta, in assenza di case popolari, ad occupare gli sfitti e ritenerli non solo come casa propria, ma come la rappresentazione fisica del rifiuto al mercato degli affitti che specula sull’indigenza, sempre in nome dell’accumulazione di capitale da parte di pochi, pochissimi. E’ la stessa consapevolezza che porta a rifiutare il meccanismo schiavista del lavoro salariato, scavalcando anche i grandi e immobili sindacati, diventati l’idrante puntato sui lavoratori di ogni tipo, pronti ad entrare in funzione ad ogni minimo accenno di conflitto (quando non firmano accordi omicidi ovviamente); è la stessa forza che porta gli studenti a ragionare sul concetto di autoformazione, senza aspettare che un ministro di turno miracoli il mondo della formazione, rendendo i saperi liberi dai profitti.

Nella rottura di queste gabbie, nello sviluppo di autonomia nelle forme di opposizione e resistenza, nella partecipazione alla vita in comune: è qui che si trova “l’altro”, l’alternativa. È qui che trovano spazio tutti gli “-anti” che spesso vengono utilizzati, e che anche noi utilizziamo. L’ antifascismo su tutti è quell’ -anti che ci sentiamo di sottolineare di più al momento. L’ antifascismo non è solo opinione, è pratica, è militanza. Memori della Resistenza sappiamo che nessuno spazio di agibilità va lasciato ai fascisti, né fisico né comunicativo, e che ogni mezzo è necessario affinché si possa fermare l’avanzata di nostalgici del regime. Un “-anti” che racchiude una visione di relazione umana che preserva la diversità e la rispetta, che promuove l’accoglienza e le società meticce, che rende le persone libere di definire le proprie appartenenze sessuali come meglio credono.

È questo un punto di vista che si rifà molto alle nostre esperienze di movimento, che richiama molto i processi dei “no costituenti” e che vede proprio nella scelta movimentista il miglior modo per esprimere e praticare autonomia e autorganizzazione in ottica antagonista. Non vediamo alcuna prospettiva in esperienze politiche come Syriza e Podemos. Questo non significa rifiutarsi a priori di aprire analisi e ragionamenti o un confronto con questi attori; significa però che forme organizzative di questo tipo non le consideriamo una pratica politica attuabile, come non le consideriamo avulse da quel legame del potere con il potere che decide a scapito della pelle di centinaia di migliaia di persone. Ed è questo un passaggio a cui, in quanto “terroni”, siamo particolarmente legati. Perché in un contesto in cui l’oppressione non viene solo dal sistema economico, ma è abilmente assistita da Stato e malavita, porre l’accento sui concetti di autonomia e autorganizzazione, contrapposti alla rappresentanza degli interessi, è un punto cruciale. Infatti, spazzata via dalla memoria collettiva quella parte di storia che vede il popolo siciliano, e non solo, protagonista di un tentativo di riscatto, l’andazzo generale è sempre stato quello di vedere la Sicilia, ma anche in resto del Sud come un bacino da cui attingere, pieno di pedine da poter spostare e sfruttare a seconda delle contingenze. Ecco perché abituare la gente a vedersi e mostrarsi come “soggetto passivo” è stato fondamentale per sedimentare diversi tipi di poteri e oppressioni: se non è lo stato, è la mafia e finanche la chiesa. Tutti attori che si pongono in ottica dominante e relegano gli altri a ruolo di “assistito”, perennemente sotto ricatto, sovrastato. La ricerca di rotture e la creazione di conflitto, facendo attenzione al “come” questo si raggiunge e si sviluppa, è dunque fondamentale per noi, perché significa aspirare ad un cambiamento totale, che non veda solo il ribaltamento dei rapporti di forza.

Come dicevamo all’inizio di questo lungo ragionamento, “fare territorio” è per noi resistenza, è una continua sperimentazione, passibile di cambiamenti e, soprattutto, in cerca di confronto.

Solidarietà a* antirazzist* trevigian*!

Quei flussi migratori che dal Mediterraneo fanno tappa in Italia si scontrano oggi con una politica istituzionale incapace, spesso impotente, o addirittura apparentemente tutta tesa a creare emergenze continue, tensioni evitabili se solo si stesse più attenti. In questo clima alle volte al limite della tolleranza, ancora una volta, si affacciano Forza Nuova, Casa Pound e Lega, approfittando della disperazione e della paura della gente per aggregare persone attorno a temi populisti, scarni di contenuti ma comunque efficaci. E’ così che Treviso, Roma, Livorno, e alcuni altri episodi avvenuti nei mesi scorsi, rischiano di essere solo i primi momenti di un’ escalation della paura del diverso, dello straniero. Da Catanesi conosciamo bene sia la difficoltà della gestione degli sbarchi, sempre in aumento, sia la bellezza dell’ accoglienza e dello scambio reciproco. Portiamo dentro la storia della contaminazione dei popoli e sappiamo quanto questa valga più di semplicistiche e cieche paure del diverso. Sappiamo anche come, in momenti di difficoltà collettiva, la più becera politica, da quella populista a quella fascista, ma anche il malaffare, riescano facilmente ad attrarre con i loro discorsi e proposte persone sempre più incerte e impaurite. Per questo crediamo che spendersi a difesa dei migranti, per l’apertura delle frontiere e la libera circolazione, sia di fatto opporsi a correnti neo-razziste e neo-fasciste. Esprimiamo la massima solidarietà a quanti oggi sono stati strattonati malamente dalla polizia, caricati sui cellulare e arrestati a Treviso, solo per aver manifestato il proprio legittimo sentimenti antirazzista e antifascista dopo gli spiacevoli fatti accaduti nei giorni scorsi.

Contro razzismi e fascismi, tutt* liber*!