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“FareTerritorio”: un tentativo di definizione
Tempo fa abbiamo iniziato un percorso, “Io Resto per Fare Territorio”, intendendolo non solo come una conricerca o uno slogan ma come un vero e proprio tema politico da sviscerare, a partire dalla nostra esperienza politica. Infatti, da semplice indagine su come i militanti di diverse realtà antagoniste siciliane vivono il fenomeno migratorio di casa nostra, siamo arrivati all’esigenza di chiarire cosa per noi significa “rimanere” per “fare territorio”. E non è semplice, naturalmente, ma sentiamo che uno sforzo definitorio vada fatto.
“Fare territorio” parte dal concetto di resistenza come esigenza. Infatti per noi oggi rimanere al Sud, nel nostro caso in Sicilia, non seguendo il continuo flusso migratorio interno, è certamente un atto di resistenza. Ci sono nemici che sono comuni ovunque nel mondo, ma dirsi anticapitalisti, nel senso più ampio del termine, è forse una cosa che serve anche se scontata. Perché se è vero che il sistema capitalista ha una natura eminentemente economica, è vero anche che esistono capitalismi sociali e politici non da meno, e non meno pericolosi. Sentirsi anticapitalisti quindi non può essere legato solo ad un’analisi prettamente economica, che parli esclusivamente in termini di profitti monetari e accumulazione di capitale, ma anche e soprattutto ad un intervento politico e sociale nei territori, che vada ad aggredire non solo il capitale ma anche quei giochi di potere politico-mafiosi tipici di casa nostra che reprimono, indiscriminatamente, abituando alla sottomissione.
I territori rimangono per noi il campo principale della nostra resistenza, luogo da cui nasce e in cui si riversa questa esigenza. L’esperienza movimentista dentro al movimento NoMuos e i campeggi in Val di Susa, ci hanno insegnato che i territori sono di chi li abitano. Anche in questo caso, uno slogan è diventato un progetto, un modo di agire sull’esistente, partendo dalla propria terra, dai propri contesti. “Territorio” diventa il quartiere in cui si abita, le scuole e le università che si frequentano, i (tanti e vari, spesso vacui) luoghi di lavoro precario e sottopagato. Questo il nostro territorio, al di fuori dai contesti rurali dei movimenti territoriali a cui siamo legati, questo il terreno da cui nasce e si sviluppa la nostra esigenza di resistere. Sovvertire quella che sembra, anche se così non è, la naturale tendenza ad essere sudditi e soggetti passivi alla pressione economica, sociale e politica che viene da palazzi, borse e governance, è un passo che necessariamente ha a che fare col concetto di autorganizzazione, intesa come partecipazione, comunità vissuta e condivisa, prima forza motrice del cambiamento e della creazione di “altro”, partendo proprio dai propri territori quotidiani. Curarsi di una piazza, porsi il problema della formazione ricevuta, capire la distribuzione dei profitti all’interno di un contesto lavorativo, sono tutti passi che portano a pratiche di vera e propria riappropriazione, rottura del rapporto “oppresso/oppressore”, quindi della routine quotidiana fatta di servilismo, e che vedono spazi liberati e occupati, luoghi di formazione vibranti di autoformazione e condivisione dei saperi, luoghi di lavoro gestiti dagli stessi lavoratori. Sì, perché chi meglio dell’abitante di un quartiere, di uno studente o un lavoratore può capire quali sono le esigenze del proprio “territorio” di riferimento? Il primo atto di resistenza è dunque mettersi in comune, rompere la gabbia dell’isolamento e creare comunità, contrapposta all’atomismo e alla futilità di rapporti basati su mere facciate estetiche e profitto. Mettere in comune i bisogni, rispondere in maniera collettiva ad essi, sono passaggi che alimentano, almeno per noi, il concetto di autonomia, intesa come consapevolezza e pratica. È quella che porta, in assenza di case popolari, ad occupare gli sfitti e ritenerli non solo come casa propria, ma come la rappresentazione fisica del rifiuto al mercato degli affitti che specula sull’indigenza, sempre in nome dell’accumulazione di capitale da parte di pochi, pochissimi. E’ la stessa consapevolezza che porta a rifiutare il meccanismo schiavista del lavoro salariato, scavalcando anche i grandi e immobili sindacati, diventati l’idrante puntato sui lavoratori di ogni tipo, pronti ad entrare in funzione ad ogni minimo accenno di conflitto (quando non firmano accordi omicidi ovviamente); è la stessa forza che porta gli studenti a ragionare sul concetto di autoformazione, senza aspettare che un ministro di turno miracoli il mondo della formazione, rendendo i saperi liberi dai profitti.
Nella rottura di queste gabbie, nello sviluppo di autonomia nelle forme di opposizione e resistenza, nella partecipazione alla vita in comune: è qui che si trova “l’altro”, l’alternativa. È qui che trovano spazio tutti gli “-anti” che spesso vengono utilizzati, e che anche noi utilizziamo. L’ antifascismo su tutti è quell’ -anti che ci sentiamo di sottolineare di più al momento. L’ antifascismo non è solo opinione, è pratica, è militanza. Memori della Resistenza sappiamo che nessuno spazio di agibilità va lasciato ai fascisti, né fisico né comunicativo, e che ogni mezzo è necessario affinché si possa fermare l’avanzata di nostalgici del regime. Un “-anti” che racchiude una visione di relazione umana che preserva la diversità e la rispetta, che promuove l’accoglienza e le società meticce, che rende le persone libere di definire le proprie appartenenze sessuali come meglio credono.
È questo un punto di vista che si rifà molto alle nostre esperienze di movimento, che richiama molto i processi dei “no costituenti” e che vede proprio nella scelta movimentista il miglior modo per esprimere e praticare autonomia e autorganizzazione in ottica antagonista. Non vediamo alcuna prospettiva in esperienze politiche come Syriza e Podemos. Questo non significa rifiutarsi a priori di aprire analisi e ragionamenti o un confronto con questi attori; significa però che forme organizzative di questo tipo non le consideriamo una pratica politica attuabile, come non le consideriamo avulse da quel legame del potere con il potere che decide a scapito della pelle di centinaia di migliaia di persone. Ed è questo un passaggio a cui, in quanto “terroni”, siamo particolarmente legati. Perché in un contesto in cui l’oppressione non viene solo dal sistema economico, ma è abilmente assistita da Stato e malavita, porre l’accento sui concetti di autonomia e autorganizzazione, contrapposti alla rappresentanza degli interessi, è un punto cruciale. Infatti, spazzata via dalla memoria collettiva quella parte di storia che vede il popolo siciliano, e non solo, protagonista di un tentativo di riscatto, l’andazzo generale è sempre stato quello di vedere la Sicilia, ma anche in resto del Sud come un bacino da cui attingere, pieno di pedine da poter spostare e sfruttare a seconda delle contingenze. Ecco perché abituare la gente a vedersi e mostrarsi come “soggetto passivo” è stato fondamentale per sedimentare diversi tipi di poteri e oppressioni: se non è lo stato, è la mafia e finanche la chiesa. Tutti attori che si pongono in ottica dominante e relegano gli altri a ruolo di “assistito”, perennemente sotto ricatto, sovrastato. La ricerca di rotture e la creazione di conflitto, facendo attenzione al “come” questo si raggiunge e si sviluppa, è dunque fondamentale per noi, perché significa aspirare ad un cambiamento totale, che non veda solo il ribaltamento dei rapporti di forza.
Come dicevamo all’inizio di questo lungo ragionamento, “fare territorio” è per noi resistenza, è una continua sperimentazione, passibile di cambiamenti e, soprattutto, in cerca di confronto.
#IoResto per #FareTerritorio: verso il 24 maggio
Se è vero che la politica dal basso deve partire dalle esigenze reali, è pure vero che, per chi vive il Sud, parlare di “emigrazione” è più che mai necessario. Basta un solo dato, un solo numero per capire la portata del flusso migratorio che, negli ultimi anni, ha visto giovani e non, studenti e disoccupati, fare le valigie e partire. Ci riferiamo all’ultimo rapporto Svimez 2014 sull’economia del mezzogiorno che registra, negli ultimi venti anni, circa 2.3 milioni di persone emigrate dal Sud al Centro-Nord.
Nei mesi passati il tema ci si è riproposto davanti più volte. L’ultima volta, a dicembre scorso, in un incontro regionale titolato “Dalle città a Niscemi, da Niscemi alle città” avevamo avuto modo di confrontarci con altre compagne e compagni sull’importanza della politica dal basso nel territorio e sull’impatto negativo dell’emigrazione per lo stesso territorio. L’abbandono delle proprie città e dei propri paesi da parte di tante persone, ormai di età molto diverse, è una grana con cui il Sud Italia tutto fa i conti, ma su cui ci si è interrogati davvero poco in maniera produttiva, almeno non in un momento comune di incontro. Eppure i numeri della gente che emigra aumentano.
Se da un lato la politica istituzionale ha solo marginalmente, e in maniera fallimentare, toccato la tematica, chi come noi resta fuori dai palazzi del potere non può non porsi delle domande sul tema. Domande che non hanno ancora trovato risposta ma che hanno fatto crescere in noi la volontà di capire meglio e analizzare il cuore della questione. A questo punto, le statistiche, le semplici percentuali in relazione a diversi periodi storici non sono stati più sufficienti. Abbiamo quindi voluto iniziare un percorso di conricerca a livello regionale, che possa analizzare la relazione tra la militanza politica e le scelte di emigrazione e non-emigrazione.
I focus di questo esperimento sono fondamentalmente tre. Prima indagare la relazione tra la militanza politica di tante compagne e tanti compagni di tutta la regione e le loro opinioni sull’emigrazione e il rimanere in Sicilia. In secondo luogo, confrontare questi risultati con le opinioni e le scelte di chi forse non è molto attivo politicamente o magari ha un senso di appartenenza politica minore. Infine, arrivare a chi, seppur militante attivo in collettivi studenteschi, comitati territoriali o centri sociali, ha comunque deciso di partire, di andar via dalla propria terra.
Il primo step di questa conricerca riguarda strettamente “noi”, militanti e attivisti, coloro i quali spesso danno per scontato che per chi ogni giorno si attiva sul proprio territorio è automatico non solo vedere l’emigrazione come un male ma anche non prendere l’emigrazione come possibilità. Da Catania a Palermo, passando per Niscemi e Messina e molte altre città di tutta l’isola, da circa un mese la nostra conricerca è passata di città in città per raccogliere le esperienze e le “voci” di realtà diverse.
Ci sembra essere arrivato il momento di incontrarsi in un primo momento di confronto sul primo dei tre step della conricerca, che senza dei momenti di analisi comune e confronto perderebbe certamente il suo senso.
Domenica 24 maggio quindi dedicheremo un’intera giornata a questo tema e non solo. Infatti, per l’occasione, nella stessa giornata si terrà un incontro di studenti provenienti da diverse città del Sud. Studenti questi che, incontratisi in altre occasioni, hanno sentito l’esigenza di confrontarsi su alcuni temi come studentesse e studenti meridionali, consci che tematiche attuali (dalla buona scuola, all’emergenza abitativa) hanno al Sud un impatto sociale spesso diverso che nel resto d’Italia.
La giornata del 24 maggio vuole essere un punto di partenza per esprimere un comune #IoResto, affinché, seppur nelle diversità, si riparli ancora dell’importanza di essere e fare territorio.