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#Renziscappa anche a Catania

prova_a_prendermi1Il #Renziscappa tour fa tappa anche a Catania e non si può dire certo che non sia stata una tappa sofferta. Lo è stata di sicuro per chi voleva scendere in piazza a esprimere tutta la propria rabbia contro il governo di Matteo Renzi e del suo partito. I contestatori sono stati obbligati a scontrarsi in prima battuta contro uno scarsissimo preavviso e soprattutto un’imbarazzante tarantella di orari e di luoghi che, variando di ora in ora, ha reso impossibile l’organizzazione e la pubblicizzazione di un momento cittadino di opposizione. Il timore di ricevere buca dal giovane primo ministro fuggitivo ha portato uno
striscione affisso al Teatro Massimo Bellini nelle prime ore di sabato ha comunque consegnato un messaggio importante al presidente: “Renzi Coniglio, Catania non ti vuole!” .
Superata questa gincana orchestrata a braccetto da Presidenza del consiglio dei ministri e Questura di Catania, chi sabato è sceso in piazza si è trovato di fronte un centro storico del tutto militarizzato e un enorme schieramento di forze dell’ordine a protezione della passerella di Renzi e dei politicanti di casa nostra.

Sofferta dicevamo. Sofferta per i contestatori sì certo, ma se vogliamo dirla tutta sofferta anche per Matteo Renzi e il suo entourage. Mentre verso il Teatro Massimo sfilava il peggio della politica locale e regionale di destra e di sinistra, indifferentemente chiamata a raccolta e bollita nel calderone della “nuova” politica renziana, il dato politico più rilevante rimane quello di una fuga programmata quanto inevitabile. Programmata perché, con buona pace delle retoriche di regime, Renzi sa bene di essere marcato stretto dall’opposizione sociale al proprio governo. Inutile in questa sede ricordare che le contestazioni (e la conseguente mano repressiva) seguono puntualissime Renzi e le sue visite in tutta Italia.

La fuga è inevitabile perché Renzi è ad oggi simbolo primo della mala politica delle collusioni, delle banche, dei petrolieri e degli affaristi, ma anche la politica della distruzione della scuola pubblica e della celebrazione ultima dello sfruttamento, è la politica del “progresso” per i soliti noti, è la politica delle devastazioni territoriali e della marginalizzazione delle periferie, è la politica che umilia e condanna il sud nelle classifiche universitarie, nelle deportazioni dei docenti, nell’uso e ridistribuzione dei fondi, nell’emigrazione dei giovani. Ma più di ogni altra cosa è la politica che rappresenta se stessa in comizi sorvegliati da cecchini, che parla esclusivamente il linguaggio delle passerelle, che ricicla il peggio delle classi politiche del decennio e che, inevitabilmente, da queste e tante altre strade dovrà fuggire.

 

Nella memoria l’esempio, nella lotta la pratica

Correva l’anno 1945 ed in Italia prendeva forma un fenomeno chiamato “Resistenza Partigiana” .

Di ‘resistenza’, durante il ventennio fascista e l’avvento del nazismo se n’è parlato tante volte: migliaia di  piccoli focolai di opposizione hanno attraversato la penisola italiana in quegli anni, piccoli atti di disobbedienza quotidiana diffusi tra la popolazione. Ma nel 1945, anno in cui l’Italia viene liberata dall’oppressione fascista, succede una cosa tanto inaspettata quanto fondamentale: quella del ’45 è stata  l’esplosione di una rabbia collettiva che già da  anni covava tra la popolazione. L’organizzazione  delle Brigate Partigiane, spontanea, popolare ed assolutamente trasversale, esprimeva un radicale ed immediato bisogno di libertà e una necessità di autodeterminare la propria vita.

Se è vero quindi che il 25 aprile non è altro che una delle grandi giornate di resistenza che i partigiani hanno attraversato nel loro percorso di lotta verso la liberazione, è anche vero che la vittoria dell’antifascismo e la vittoria di uno dei fenomeni di Resistenza più forti d’Europa, deve essere ricordata con gioia e festeggiata per quello che è: un giorno di memoria collettiva, di messa in comune di esperienze e conoscenze.

Ecco perché feste25 aprileggiamo il 25 aprile, perché nel nostro “calendario di lotta” questa data è sempre in rosso: ricordiamo chi, per difendere e liberare la propria terra, ha imbracciato le armi e combattuto.

Chi a 18, 25, 50 anni ha rischiato la vita tra le montagne e nelle ferrovie, tra i nascondigli e i boschi, perché vivere sotto l’oppressore fascista era migliaia di volte peggio che morire inseguendo il sogno della Libertà.

Festeggiamo il 25 aprile ma restiamo l’antifascismo tutto il resto dell’anno e combattiamo contro,il nostro oppressore che oggi ha però cambiato volto.

Viviamo e resistiamo quotidianamente nella nostra bella ma difficile terra, cerchiamo di, come fecero i partigiani nel costituire le Brigate, creare una comunità di lotta e in lotta, di mettere in comune le nostre esperienze e da queste portare avanti una lotta vera e costante sul territorio, che ci permetta di non essere oppressi da chi ci vuole schiavi del lavoro precario, di chi ci vuole schiavi di un’istruzione sterile e fine a se stessa.

Perciò il 25 aprile possiamo permetterci di festeggiare, di ricordare chi ha lottato prima di noi e, per tanti versi, ci ha anche insegnato cosa vuol dire lottare per la propria libertà.

Vivere questa data come un giorno di vera festa e liberazione, sentirla come una data che parla dei valori dell’antifascismo, ma soprattutto come una data che ci ricorda l’immenso valore che ha la lotta quotidiana.

#IoResto #IoResisto

Negli ultimi 20 anni 2.5 milioni di persone sono emigrate dal Sud, soprattutto giovani, partiti per studiare o lavorare.
L’isola spesso decantata per le sua indiscussa bellezza, ad un certo punto sembra essere così ostile e inospitale da spingere tante e tanti a fare i bagagli. Il risultato è un territorio sempre più sterilemanifesto e impoverito, con piccoli paesi destinati a scomparire e città svuotate.
Oggi, rimanere al Sud, in Sicilia, è un atto di resistenza.
Resistiamo in mezzo ad una matassa di macro e micro poteri, resistiamo ad una mentalità comune abituata alla rassegnazione e all’accettazione, resistiamo ad un sistema capitalista in cui sfruttare è l’unico verbo riconosciuto, resistiamo a politici che lucrano ogni giorno sulla nostra pelle.
Che fare quindi? Prima di tutto scegliere.
Scegliere di rimanere, che non è scontato, né per lo più facile.
Porselo come imperativo se si pensa che a rimanere invece è il peggio della politica e dell’economia nostrana che negli anni questa terra l’ha solo affossata.
Chi ha deciso che al Nord si deve studiare, lavorare, vivere meglio che qui? Vogliamo tutto! Vivere e lottare a scuola, a lavoro, in quartiere, ovunque per difendere il mio territorio, per cambiarlo e migliorarlo.
Domandarsi costantemente:“Ma se non lo faccio io, perché dovrebbe farlo qualcun altro?”
E poi ancora rompere la gabbia dell’isolamento, mettersi in comune e resistere insieme.

Rispondere colpo su colpo, senza timore

Dare vita allo Spazio Recuperato Uzeta è una scelta di campo, non solo un esigenza.

Come nella leggenda catanese, immortalata in uno dei lampioni di piazza Università, in cui un ragazzo del popolo, Uzeta per l’appunto, si schiera a difesa della città contro i giganti Ursini, così crediamo si debba oggi aver coraggio nella lotta ed affrontare le controparti nonostante la disparità ed il disequilibrio.

Gli incessanti sgomberi e sfratti, lo scardinamento di ogni tipo di welfare e tutele sociali, l’arretramento nei diritti sul lavoro, i tagli alla cultura, ci danno la misura dell’attacco che stiamo subendo. Il capitale, i sistemi di potere sono oggi in dichiarato e serrato attacco(offensiva), ma la nostra resistenza non può essere passiva, non può essere pensata come barricamento ma come costante controffensiva.

Lo S12596273_1561306584160361_1517356547_npazio Recuperato Uzeta rappresenta una risorsa per la città di Catania non solo in termini di spazio fisico, ma soprattutto politico.

Nel momento in cui ogni sorta di conflittualità sociale è posta in discussione, è annullata, è ridotta a sporadici momenti di piazza, crediamo sia la costanza ed una serrata organizzazione antagonista a fare la differenza.

Sovvertire quella che sembra, anche se così non è, la naturale tendenza ad essere sudditi e soggetti passivi alla pressione economica, sociale e politica che viene da palazzi, borse e governance, è un passo che necessariamente ha a che fare con il concetto di autorganizzazione, intesa come partecipazione, comunità vissuta e condivisa, prima forza motrice del cambiamento, partendo dai propri territori quotidiani.

Tutto ciò passa certo da una difesa e da un attacco, ma soprattutto da una scelta, quella di “restare” che come dal suo significato etimologico rappresenta l’opposizione ad andarsene, la scelta di non abbandonare, come Uzeta, il campo di battaglia, il proprio territorio di lotta.

                                                     Spazio Recuperato Uzeta