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IACP: c’è cu mancia e cu talia!

Oggi alcuni rappresentanti dei nuclei familiari del Comitato di lotta per la casa “CASAxTUTTI” hanno bloccato gli uffici dello IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), in via Dottor Consoli 80, per denunciare la drammatica situazione dell’ emergenza abitativa e chiedere udienza e risposte sulle mancate assegnazioni degli alloggi popolari.
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Il Comitato di lotta per la casa “CASAxTUTTI” ha scelto di bloccare l’accesso allo IACP per denunciare l’attuale “inutilità” di tale ufficio.
Le famiglie, con richieste d’alloggio decennali, non riescono più ad avere fiducia in possibili assegnazioni e pretendono risposte.
Non si possono più aspettare i tempi infiniti della burocrazia e della cattiva gestione degli enti.
Non si possono ignorare le indagini condotte tra il 2006 e il 2010, che hanno portato sul banco degli imputati Santo Schilirò Rubino, ex direttore dell’Istituto Autonomo Case Popolari di Catania attualmente dirigente dell’area contabile, il figlio Ettore, insieme ad altre dieci persone tra cui alcuni dirigenti e dipendenti dell’ente regionale. Nel processo i reati che a vario titolo vengono contestati agli imputati sono truffa, abuso d’ufficio e falso ideologico.
Oggi il direttore è cambiato, ma i dipendenti restano gli stessi, ed assurda appare la lotta agli “abusivi” degli alloggi popolari quando proprio i dipendenti dell’ente sono accusati di aver donato alloggi ad amici e parenti, e causato un danno all’amministrazione di 30milioni di euro.
Le poche centinaia di assegnazioni non rispondono alle migliaia di richieste, di cui 13000 solo gli aventi diritto, e le case servono subito.

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L’azione di oggi ha permesso di ottenere un incontro con il direttore generale dello IACP, Cunturo, per mercoledì prossimo. Nel frattempo la lotta va avanti.
Il Comitato CASAxTUTTI, ormai da anni, affronta decine e decine di sfratti per morosità incolpevole e situazioni abitative critiche, e rilancia ad una manifestazione cittadina che si terrà sabato 10 ottobre, alle ore 17:30 sotto la Prefettura di Catania.

MESSINA – Irene e Sergio condannati. LIBERI SUBITO!

Questo pomeriggio al Tribunale di Messina si è tenuto il processo di Irene e Sergio, accusati di aver ferito un vigile urbano durante un presidio.
Dopo tre settimane di discutibili misure cautelari a cui sono stati sottoposti in attesa di giudizio (obbligo di firma per Irene e domiciliari per Sergio), oggi arriva la sentenza in primo grado: un anno per Sergio e sei mesi per Irene. Il Tribunale di Messina quindi continua a non smentirsi e decide di condannare Irene e Sergio per un fatto che non sussiste. Infatti la difesa ha presentato in sede processuale un video in cui chiaramente si vede come entrambi fossero fisicamente distanti dal vigile che si è ferito durante l’operazione di smontaggio di una tenda. Nonostante questa prova evidente, il giudice non solo ha condannato i nostri compagni ma ha anche deciso per una pena maggiore rispetto a quella richiesta dallo stesso PM.
Questa vicenda si era aperta in maniera losca quando le forze dell’ordine, dopo un lungo consulto con la digos durante il presidio, avevano deciso di portare in questura Irene e Sergio (per “essere identificati”) per poi comunicare loro che erano agli arresti domiciliari fino al processo. Continua in maniera vergognosa questa vicenda che, nonostante le prove schiacciati presentate, vede due compagni condannati per un fatto che non sussiste. Si esprime così, in maniera sconcertante, il marcio di un sistema che non fa altro che auto-tutelarsi, in barba all’evidenza. Scagionare Sergio e Irene oggi avrebbe significato ammettere che un pubblico ufficiale, sostenuto da una perizia medica, ha mentito, sapendo di mentire.
Quello che sentiamo adesso è sgomento e rabbia per una sentenza ingiusta a danno di due compagni. Sopra ogni cosa però la solidarietà e la vicinanza che sentiamo di esprimere verso Sergio e Irene, che sulla loro pelle stanno subendo un accanimento repressivo che in tutto il paese tante parti del movimento stanno subendo, allo stesso modo. Su questo ormai palese cambiamento di fase dovremo interrogarci. Per ora esprimiamo solo la nostra rabbia e la nostra solidarietà.
Non finisce qui.
Irene e Sergio liberi SUBITO!

Le case servono subito!

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Oggi, lunedì 21 Settembre 2015, alle ore 10:00, alcuni rappresentanti dei nuclei familiari del Comitato di lotta per la casa “CASAxTUTTI” hanno tenuto una conferenza stampa di fronte al Palazzo Bernini per denunciare la drammatica situazione dell’ emergenza abitativa e l’assenza di prontezza dell’ amministrazione nell’affrontare il problema.

Che la situazione abitativa a livello nazionale sia profondamente drammatica lo si sente ogni giorno.
Il 40% del budget familirare, in media, è speso per pagare l’affitto, e in una città come Catania il numero di sfratti eseguiti per morosità è in forte crescita.
Le richieste di alloggi popolari ruotano intorno alle 13000 unità ed il numero di alloggi sbloccati dallo IACP negli ultimi anni si aggira intorno a qualche centinaio.
Eppure la proprietà del Comune conta circa 300immobili e 269 terreni.
Tra questi le quattro palazzine di via Bernini.
Questo immobile è ben rappresentativo della pessima gestione delle risorse.
Comprato dalla giunta Bianco nel 1999 per 8miliardi di lire, non è mai stato utilizzato.
Più volte occupato per emergenza abitativa ed altrettante volte sgomberato sino al 2012, anno in cui sono stati murati gli accessi.
Messo in vendita, ma rimasto invenduto, durante quest’estate l’amministrazione si è nuovamente espressa sul palazzo.
Il sindaco Bianco ha parlato di un progetto di “social housing” per studenti, mentre il presidente della commissione al Bilancio Parisi, ha proposto di affidarne la gestione, e la ristrutturazione, alla curia per farne rifugio per i poveri.
Solo parole? Se così non fosse, quali i tempi di realizzazione?
Bisogni collettivi, come quello di avere un tetto sopra la testa, non possono aspettare i tempi biblici degli enti invischiati in azioni giudiziarie, battibecchi istituzionali o le campagne elettorali. Se qualcuno ha bisogno di una casa ora, ora è il momento a cui rispondere a tale bisogno. Per questo il comitato CASAxTUTTI crede sia assolutamente legittimo e giusto bloccare quegli sfratti di famiglie che l’affitto non possono pagarlo ed occupare gli sfitti, pubblici e no.
All’articolo 5 del piano casa del governo, che criminalizza gli occupanti negando i diritti fondamentali, rispondiamo facendo battaglia.

L’emergenza abitativa è ormai esplosa, migliaia di famiglie non riescono più a pagare l’affitto e tantissimi sono i casi di sfratti per morosità.
Il Comitato di lotta per la casa CASAxTUTTI, composto da diverse famiglie in situazione di emergenza, ha deciso di muoversi e chiedere risposte celeri all’amministrazione Bianco ed allo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari).
Con i dati alla mano, il comitato CASAxTUTTI esige risposte concrete e rilancia ad un presidio che si terrà sotto la prefettura sabato 10 ottobre alle ore 17:30.

“FareTerritorio”: un tentativo di definizione

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Tempo fa abbiamo iniziato un percorso, “Io Resto per Fare Territorio”, intendendolo non solo come una conricerca o uno slogan ma come un vero e proprio tema politico da sviscerare, a partire dalla nostra esperienza politica. Infatti, da semplice indagine su come i militanti di diverse realtà antagoniste siciliane vivono il fenomeno migratorio di casa nostra, siamo arrivati all’esigenza di chiarire cosa per noi significa “rimanere” per “fare territorio”. E non è semplice, naturalmente, ma sentiamo che uno sforzo definitorio vada fatto.

“Fare territorio” parte dal concetto di resistenza come esigenza. Infatti per noi oggi rimanere al Sud, nel nostro caso in Sicilia, non seguendo il continuo flusso migratorio interno, è certamente un atto di resistenza. Ci sono nemici che sono comuni ovunque nel mondo, ma dirsi anticapitalisti, nel senso più ampio del termine, è forse una cosa che serve anche se scontata. Perché se è vero che il sistema capitalista ha una natura eminentemente economica, è vero anche che esistono capitalismi sociali e politici non da meno, e non meno pericolosi. Sentirsi anticapitalisti quindi non può essere legato solo ad un’analisi prettamente economica, che parli esclusivamente in termini di profitti monetari e accumulazione di capitale, ma anche e soprattutto ad un intervento politico e sociale nei territori, che vada ad aggredire non solo il capitale ma anche quei giochi di potere politico-mafiosi tipici di casa nostra che reprimono, indiscriminatamente, abituando alla sottomissione.

I territori rimangono per noi il campo principale della nostra resistenza, luogo da cui nasce e in cui si riversa questa esigenza. L’esperienza movimentista dentro al movimento NoMuos e i campeggi in Val di Susa, ci hanno insegnato che i territori sono di chi li abitano. Anche in questo caso, uno slogan è diventato un progetto, un modo di agire sull’esistente, partendo dalla propria terra, dai propri contesti. “Territorio” diventa il quartiere in cui si abita, le scuole e le università che si frequentano, i (tanti e vari, spesso vacui) luoghi di lavoro precario e sottopagato. Questo il nostro territorio, al di fuori dai contesti rurali dei movimenti territoriali a cui siamo legati, questo il terreno da cui nasce e si sviluppa la nostra esigenza di resistere. Sovvertire quella che sembra, anche se così non è, la naturale tendenza ad essere sudditi e soggetti passivi alla pressione economica, sociale e politica che viene da palazzi, borse e governance, è un passo che necessariamente ha a che fare col concetto di autorganizzazione, intesa come partecipazione, comunità vissuta e condivisa, prima forza motrice del cambiamento e della creazione di “altro”, partendo proprio dai propri territori quotidiani. Curarsi di una piazza, porsi il problema della formazione ricevuta, capire la distribuzione dei profitti all’interno di un contesto lavorativo, sono tutti passi che portano a pratiche di vera e propria riappropriazione, rottura del rapporto “oppresso/oppressore”, quindi della routine quotidiana fatta di servilismo, e che vedono spazi liberati e occupati, luoghi di formazione vibranti di autoformazione e condivisione dei saperi, luoghi di lavoro gestiti dagli stessi lavoratori. Sì, perché chi meglio dell’abitante di un quartiere, di uno studente o un lavoratore può capire quali sono le esigenze del proprio “territorio” di riferimento? Il primo atto di resistenza è dunque mettersi in comune, rompere la gabbia dell’isolamento e creare comunità, contrapposta all’atomismo e alla futilità di rapporti basati su mere facciate estetiche e profitto. Mettere in comune i bisogni, rispondere in maniera collettiva ad essi, sono passaggi che alimentano, almeno per noi, il concetto di autonomia, intesa come consapevolezza e pratica. È quella che porta, in assenza di case popolari, ad occupare gli sfitti e ritenerli non solo come casa propria, ma come la rappresentazione fisica del rifiuto al mercato degli affitti che specula sull’indigenza, sempre in nome dell’accumulazione di capitale da parte di pochi, pochissimi. E’ la stessa consapevolezza che porta a rifiutare il meccanismo schiavista del lavoro salariato, scavalcando anche i grandi e immobili sindacati, diventati l’idrante puntato sui lavoratori di ogni tipo, pronti ad entrare in funzione ad ogni minimo accenno di conflitto (quando non firmano accordi omicidi ovviamente); è la stessa forza che porta gli studenti a ragionare sul concetto di autoformazione, senza aspettare che un ministro di turno miracoli il mondo della formazione, rendendo i saperi liberi dai profitti.

Nella rottura di queste gabbie, nello sviluppo di autonomia nelle forme di opposizione e resistenza, nella partecipazione alla vita in comune: è qui che si trova “l’altro”, l’alternativa. È qui che trovano spazio tutti gli “-anti” che spesso vengono utilizzati, e che anche noi utilizziamo. L’ antifascismo su tutti è quell’ -anti che ci sentiamo di sottolineare di più al momento. L’ antifascismo non è solo opinione, è pratica, è militanza. Memori della Resistenza sappiamo che nessuno spazio di agibilità va lasciato ai fascisti, né fisico né comunicativo, e che ogni mezzo è necessario affinché si possa fermare l’avanzata di nostalgici del regime. Un “-anti” che racchiude una visione di relazione umana che preserva la diversità e la rispetta, che promuove l’accoglienza e le società meticce, che rende le persone libere di definire le proprie appartenenze sessuali come meglio credono.

È questo un punto di vista che si rifà molto alle nostre esperienze di movimento, che richiama molto i processi dei “no costituenti” e che vede proprio nella scelta movimentista il miglior modo per esprimere e praticare autonomia e autorganizzazione in ottica antagonista. Non vediamo alcuna prospettiva in esperienze politiche come Syriza e Podemos. Questo non significa rifiutarsi a priori di aprire analisi e ragionamenti o un confronto con questi attori; significa però che forme organizzative di questo tipo non le consideriamo una pratica politica attuabile, come non le consideriamo avulse da quel legame del potere con il potere che decide a scapito della pelle di centinaia di migliaia di persone. Ed è questo un passaggio a cui, in quanto “terroni”, siamo particolarmente legati. Perché in un contesto in cui l’oppressione non viene solo dal sistema economico, ma è abilmente assistita da Stato e malavita, porre l’accento sui concetti di autonomia e autorganizzazione, contrapposti alla rappresentanza degli interessi, è un punto cruciale. Infatti, spazzata via dalla memoria collettiva quella parte di storia che vede il popolo siciliano, e non solo, protagonista di un tentativo di riscatto, l’andazzo generale è sempre stato quello di vedere la Sicilia, ma anche in resto del Sud come un bacino da cui attingere, pieno di pedine da poter spostare e sfruttare a seconda delle contingenze. Ecco perché abituare la gente a vedersi e mostrarsi come “soggetto passivo” è stato fondamentale per sedimentare diversi tipi di poteri e oppressioni: se non è lo stato, è la mafia e finanche la chiesa. Tutti attori che si pongono in ottica dominante e relegano gli altri a ruolo di “assistito”, perennemente sotto ricatto, sovrastato. La ricerca di rotture e la creazione di conflitto, facendo attenzione al “come” questo si raggiunge e si sviluppa, è dunque fondamentale per noi, perché significa aspirare ad un cambiamento totale, che non veda solo il ribaltamento dei rapporti di forza.

Come dicevamo all’inizio di questo lungo ragionamento, “fare territorio” è per noi resistenza, è una continua sperimentazione, passibile di cambiamenti e, soprattutto, in cerca di confronto.